domenica 24 maggio 2015

LA MINDFULNESS FUNZIONA COME UNA PSICOTERAPIA, ECCO PERCHE’.

Che la meditazione di consapevolezza, ormai protocollata a livello internazionale come mindfulness, abbia vigorosi effetti clinici è un’evidenza consolidata da centinaia di ricerche internazionali. Una delle ultime pubblicazioni, risalente al febbraio 2015, mostra come i gruppi di mindfulness abbiano la medesima efficacia della terapia cognitivo-comportamentale individuale sui pazienti con disturbi d’ansia e dell’umore. Lo studio, su 215 soggetti, è del prof. Jan Sundquist della Lund University Svedese.

Si tratta però di capire esattamente perché la mindfulness sia così efficace, cioè come funziona precisamente all’interno del cervello. David Creswell della Carnegie Mellon University – noto per av
er mostrato che la meditazione allevia lo stress, e riduce il senso di solitudine negli anziani – ha sviluppato recentemente un modello che descrive l’azione della pratica sulle vie dello stress, evidenziando i correlati biologici del training di mindfulness.
Quando un soggetto è sotto stress, l’attività cerebrale nella zona prefrontale della corteccia – deputata al controllo e alla pianificazione – diminuisce, mentre l’attività dell’amigdala, dell’ipotalamo e della corteccia cingolata anteriore – zone di attivazione rapida della risposta fisiologica d’allarme – aumenta. La pratica della mindfulness inverte questo pattern sotto stress, aumentando l’attività prefrontale che, a sua volta, è in grado di regolare e spegnere la risposta d’allarme. Riducendo l’esperienza individuale di stress, la meditazione può aiutare a regolare stabilmente la risposta fisiologica e quindi a ridurre il rischio e la gravità dei disturbi stress-correlati.

martedì 16 ottobre 2012

NEUROMEDITAZIONE: MINDFULNESS PIU' TECNOLOGIA

Che la meditazione sia una pratica in grado di contribuire attivamente e tangibilmente al benessere psicofisico è ormai un dato confermato da centinaia di ricerche scientifiche pubblicate in due decenni. Gli effetti studiati vanno dalla diminuzione dell’ansia alla riduzione dei sintomi depressivi, dalla minore percezione del dolore cronico al contenimento delle dipendenze, dall’abbattimento del rimuginio all’equilibrio tra sistema simpatico e parasimpatico, dalla migliore variabilità cardiaca al controllo della pressione sanguigna. 

Insomma, che funzioni si sa. La questione problematica, per molti, è avvicinarsi a una pratica che richiede assiduità e tempo.Tra le obiezioni più frequenti cui mi capita di dover rispondere cito, a titolo di esempio, le seguenti:
-    non ho tempo di fare gli esercizi
-    sono troppo stanco e quando faccio gli esercizi mi addormento
-    faccio gli esercizi quando sono in forma, ma quando sono giù o sono pieno di preoccupazioni non ci riesco proprio.
Il punto è questo: il primo esercizio è scegliere di fare l’esercizio. Trattandosi di una pratica orientata al cambiamento dello stile di vita e del pensiero, la meditazione – possiamo chiamarla training della consapevolezza, oppure mindfulness – non va solamente “capita”: non funziona se la “sai”, ma se la “fai”.
Non è però necessario essere monaci tibetani per dedicarsi a questa attività. Si può essere anche professionisti occidentali inseriti in un tessuto urbano frenetico, o studenti senza un attimo di respiro, o casalinghe immerse nei propri rituali domestici. E’ possibile lasciarsi contaminare dalla presenza costante e rassicurante di esercizi di spostamento dell’attenzione e respirazione per mezzora al giorno, o approfittare di brevi pause di tre-dieci minuti per inserire le cosiddette “micropratiche”, cioè veri e propri stacchi mentali in cui si sceglie consapevolmente di uscire dal proprio funzionamento abituale e automatico, riprendendo coscienza di ciò che è nel momento in cui è, cioè accogliendo sensazioni, emozioni e pensieri del momento senza giudicarli, frenarli, controllarli, censurarli.  Basta un semplice reminder automatico, come una sveglia, o un’app dedicata per smartphone (per esempio Mindfulness Bell, Mindfulness, Headspace) per interrompere a intervalli prestabiliti la routine con qualche minuto di attenzione su se stessi e sul respiro.

Ma attualmente c’è di più. L’unione delle pratiche meditative e delle psicotecniche di matrice neurologica ha portato all’emersione di una nuova disciplina, che viene chiamata neuromeditazione. Si tratta in sintesi di una forma di meditazione facilitata, assistita o verificata da un processo di condizionamento, induzione o controllo delle onde cerebrali, effettuato tramite un supporto tecnologico.
Uno stato meditativo reale e profondo corrisponde a un’espansione delle onde alpha (8-12 Hz) soprattutto nella zona posteriore del cervello e nell’emisfero destro, con possibili stati di trance evidenziati da un aumento delle onde Theta (4-8 Hz), che caratterizzano più frequentemente e stabilmente gli stati ipnotici (non è questa la sede per discutere quali e quanti punti di sovrapposizione ci siano tra stati gli di “risveglio” meditativo e quelli di trance ipnotica).

Per verificare che un soggetto lasci andare i pensieri in eccesso (diminuzione delle onde Hi-beta frontali) e allo stesso tempo non si addormenti  (espansione delle onde Delta), è possibile monitorare in tempo reale il funzionamento del suo cervello mentre medita, con l’apposizione di pochi elettrodi sul cuoio capelluto, che permettono di visualizzare e registrare un tracciato elettroencefalografico su computer e capire come guidare l’esperienza meditativa del cliente.

In alternativa è possibile utilizzare una tecnica di neurofeedback, con la stessa serie di elettrodi (da leggersi come sensori di elettricità interna, non come induttori), incentivando e quindi condizionando tramite appositi software il raggiungimento e il mantenimento delle onde più corrette attarverso ricompense acustiche. In parole povere, la persona a occhi chiusi sente un brano musicale quando il suo cervello si adegua alle soglie di funzionamento previste, e la musica si interrompe quando le frequenze cerebrali escono dai confini stabiliti, determinando così a poco a poco un condizionamento automatico delle onde prescelte (sessioni da 20-40 minuti).

Un terzo modo con cui è possibile interagire tecnologicamente con la meditazione è il brainwave entrainment, cioè la modificazione progressiva della velocità delle onde cerebrali attraverso stimoli visivi/fotici, o acustici (binaurali o isocronici) digradanti, che assumano il ruolo di stimolo dominante e conducano il cervello a rallentare fino alla velocità migliore per lo stato meditativo, in 20-40 minuti.

Infine è possibile sfruttare i rapidi effetti dell’elettrostimolazione transcranica (CES), attraverso la quale vengono indotte con regolarità per 20-60 minuti microscariche elettriche del tutto innocue e impercettibili, attraverso i lobi delle orecchie, fino all’allineamento delle onde cerebrali allo stato alpha indotto dall’esterno.

In tutti questi modi il training alla mindfulness in studio diventa più semplice per i soggetti meno predisposti, più rapido per tutti e spesso immediatamente soddisfacente grazie alle proprietà rilassanti e decomprimenti dello stato alpha.

Nella pratica è possibile abbinare diverse modalità di intervento contemporaneamente: CES come approccio rapido iniziale, neurofeedback come apprendimento progressivo, mindfulness tradizionale come pratica immersiva e cognitiva, brainwave entrainment come complemento acustico degli esercizi quotidiani. Ogni intervento, comunque, va realizzato sartorialmente sulla base dell’esperienza personale del soggetto, e dopo una seduta di monitoraggio e mappatura dell’attività cerebrale dello stesso.





mercoledì 14 marzo 2012

E' ARRIVATA LA VERSIONE AUDIOBOOK DI "PER FORTUNA..."

Se non hai ancora avuto modo di leggere il mio ebook dedicato al dolore, alle emozioni e alla mindfulness, ora "Per fortuna vivere è difficile" è anche audiobook. Puoi ascoltare il libro letto direttamente da me, comodamente in cuffia o mentre viaggi in auto. Pagina dopo pagina. Momento dopo momento.
Puoi scaricare i file mp3 da qui.

sabato 10 marzo 2012

HAI UN CANCRO AL SENO? UN AIUTO DALLA MINDFULNESS.

L’ultima ricerca, in ordine cronologico, sui benefici delle pratiche di mindfulness, secondo il protocollo MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction )di Kabat-Zinn riguarda le donne affette da cancro al seno.

Secondo l’American Cancer Society,  oggi chi riceve una diagnosi di tumore alla mammella ha un tasso di sopravvivenza molto più alto che nei decenni precedenti, però deve affrontare il tema della propria salute anche dopo la fine dei trattamenti specifici. In particolare, all’incirca il 50% dei soggetti che sconfiggono quel tipo di malattia soffre poi di depressione. L’Università del Missouri ha chiarito che meditare ha un effetto pratico e tangibile sul benessere psicofisico delle ex-malate di cancro.

Il protocollo MBSR unisce alla pratica meditativa esercizi fisici e momenti psicoeducazionali sul funzionamento dello stress nella mente e nel corpo. Le donne che sono guarite dal cancro e hanno seguito le classiche otto settimane di training MBSR hanno dato risultanze precise: pressione sanguigna più bassa, battito cardiaco rallentato, ritmo respiratorio più tranquillo. Allo stesso tempo il tono del loro umore è migliorato, così come il loro livello di consapevolezza generale. Swecodno i ricercatori questo approccio, completamente non-farmacologico, funziona alla perfezione come complemento di trattamenti chimici e chirurgici intrusivi.

I benefici si riscontrano già dai primi periodi dopo la diagnosi, che di per sè rappresenta uno shock che fa sentire la persona come se improvvisamente perdesse il controllo della propria vita. Capire la differenza tra controllo e gestione e imparare a gestire sempre il proprio stato presente, a partire dal respiro, aumenta il livello dis peranza e la sensazione che la vita possa proseguire normalmente nonostante tutto.

sabato 24 dicembre 2011

TRE MOTIVI PER FARSI UN AUGURIO DIVERSO DAL SOLITO


Questa settimana è emotivamente sempre uguale. Tra Natale e Capodanno ci si ciba di marketing della bontà. Luci e regali, funzioni religiose e sospironi, emozioni obbligatorie e tradizioni preconfezionate: a me sembra una sintesi perfetta di come non essere e di come non stare, se si tiene a se stessi.
E’ una settimana-evidenziatore che porta a galla anzi il nostro malessere e le nostre abitudini più inutili. I motivi sono almeno tre.

Il primo è ben sintetizzato da un gioco di parole. Perdono un’occasione coloro i quali non usano il perdono per dono. Tutti presi dall’ansia da regalo, infatti, consideriamo l’offerta materiale come un ticket convenzionale per arrivare al cuore di ci interessa o per assolvere alla funzione sociale del Natale, cioè il riconoscimento di un nucleo di affetti attorno ad alcuni simboli certificati dalla storia e dalla moda. Eppure ci dimentichiamo di fare un regalo alla persona che per ciascuno di noi è più importante: noi stessi. Il più grande regalo che possiamo farci è perdonarci, cioè eliminare i maledetti sensi di colpa che ci legano come cotechini impedendoci di vivere nel presente con consapevolezza. Possiamo scrivere su un foglio di carta tutto ciò per cui ci sentiamo in colpa o le ragioni per le quali abbiamo l’impressione di non meritare la vita che vorremmo. Poi impacchettiamo questo foglio come se fosse un dono e al momento giusto apriamo il pacchetto, rileggiamo ciò che abbiamo scritto e facciamone mille pezzettini o bruciamo tutto liberandocene.

Il secondo motivo è il terribile incrocio tra passato e futuro che questi giorni ben rappresentano. A fine anno sembra impossibile non redigere bilanci, stilare buoni propositi, immaginare scenari. Nostalgia e ansia dominano per qualche minuto o per molte ore il passaggio da un anno all’altro. La questione però è che tutto questo non è più, o non è ancora. Il passato è già passato e il futuro non c’è, in questo momento.  L’unica soluzione è stare qui, adesso, accogliendo le passeggere tristezze e il senso di vuoto e lasciando che la nostra attenzione noti che c’è anche altro.L’unico istante in cui puoi fare qualcosa è quello stesso istante in cui non fai nulla perché sei tutto preso a guardare indietro o a strizzare gli occhi per provare a scorgere contorni indefiniti davanti a te. E mentre lo fai, perdi quell’attimo magico che è il presente. Viceversa, torna al presente con consapevolezza - anche semplicemente respirando e osservando senza suggestioni i piatti, le luci, i colori di queste giornate di festa, che possono stupirti per come sono, invece di spaventarti per come non sono più o ancora - e disinnescherai i ritornelli mentali.

Terzo motivo: l’idea che tutti in questi giorni siano felici e beati è una menzogna sociale e crea un’aspettativa talmente elevata, nella vita dei singoli, che molti si troveranno a combattere con la tristezza solamente perché si confrontano con l’aspirazione di vivere un “Natale perfetto”, da cartolina. Siamo riusciti a creare un mostro: esiste un Natale idilliaco nelle nostre teste, che raramente si declina identico nella vita reale di ciascuno di noi, eppure è in grado di infilare fantasmi e confronti in mezzo ai nostri pensieri, guastandoci l’umore. Quello è più ricco, quello è più felice, quello ha una famiglia migliore, quello sì che è sereno, bei tempi quelli in cui passavo il Natale a casa, quando ero bambino era tutta un’altra cosa, blablabla. Per celebrare un’icona della felicità calpestiamo la felicità vera, che è sempre e soltanto la nostra capacità di stare con le nostre emozioni in questo momento, senza negarle, senza rinunciare ad alcuna di esse.

Il mio personale augurio è per un 2012 che permetta a tutti di smettere di inseguire un’ideale di Sé che soltanto noi vediamo, facendo sforzi infiniti per arrivare sempre più su, sempre più vicini a questo qualcosa che nemmeno sapremmo definire, perché non è un vero obiettivo ma l’illusoria visualizzazione di un’insoddisfazione cronica, che malignamente la nostra mente ci ripropone di continuo come ambizione. Da fuori, chi ci osserva, non capisce, non vede questa bolla sospesa sopra la nostra testa, che tanto ci ossessiona. Vede soltanto quello che facciamo. E di solito quello che facciamo è preoccuparci. Cioè non facciamo alcunchè. Partiamo da qui. Fai qualcosa. Un’azione anche molto piccola. Basta che sia soltanto per te e che ti piaccia davvero.

Un piccolo regalo per  tutti, nel frattempo: su http://lettura.perfortunavivereedifficile.it è a disposizione un'audio interattivo con la lettura del primo capitolo del mio ebook.

sabato 3 dicembre 2011

Liberi dalla trama dei pensieri

Cosa succede quando leggiamo un romanzo e ci facciamo prendere dalla sua trama? Divoriamo le pagine, avanziamo parola dopo parola trasportati dal ritmo che l’autore ha voluto dare ai nostri pensieri, viviamo per qualche minuto o qualche ora in uno stato modificato di coscienza, nel senso che ci infiliamo in una doppia condizione: assenza dalla vita reale e presenza amplificata nelle vicende raccontate dal libro.
E’ piacevole sprofondare tra le pagine di un romanzo, così come nella trama di un film. E’ un po’ come vivere un’esistenza vicaria per un breve lasso di tempo. Specie quando il racconto ci fa sognare trasportandoci in un altro luogo, in un altro modo di vivere, o in un esito diverso (e forse impossibile) di azioni quotidiane già vissute. Ma cosa succederebbe se per qualche ragione le pagine del libro ci causassero  soltanto emozioni negative e si ripetessero per tutta la lunghezza del volume? Probabilmente esprimeremmo un giudizio negativo e un po’ stizziti chiuderemmo il libro dopo una manciata di pagine.
Allora perché non riusciamo a farlo con i nostri pensieri?

Immagina di poter accendere un microregistratore digitale nel tuo cervello ogni mattina, appena ti svegli. E’ un apparecchio sofisticatissimo: riesce a memorizzare tutto quello che ti dice la tua voe interna. Arrivato a sera, il dispositivo si spegne. A quel punto immagina di  riascoltare tutto quello che ha detto la tua voce mentale nel corso della giornata. Ti ritieni probabilmente una persone intelligente, eppure scopriresti di aver detto a te stesso un’infinita di cose idiote, che a freddo non condivideresti. Con ogni probabilità riconosceresti discorsi ripetitivi, frasi che tornano in continuazione, domande e risposte sempre simili, una specie di stile ricorsivo del discorso interno. Riascoltando la tua voce mentale forse scopriresti quante discussioni inutili, quanti commenti superflui, quanti giudizi pleonastici, quanta paura, quante difese trovano posto tra i tuoi pensieri. Di solito non ce ne accorgiamo. Arriviamo a sera con una sensazione di stanchezza mentale, come se avessimo fatto chissà cosa, eppure se ripercorriamo a ritroso le azioni che abbiamo intrapreso davvero nel corso della giornata, scopriamo che non sono poi così tante. Ciò che ci stanca, ciò che ci taglia le gambe, è il nostro dialogo interno. La voce della paura che usiamo come fosse una voce della sicurezza per interpretare il mondo che ci circonda e le cose che accadono.

La prima buona notizia è che il mondo va avanti anche senza (o nonostante) le nostre faticose elucubrazioni, il che significa che quella voce è pressochè inutile. La seconda buona notizia è che se ci accorgiamo di avere quell’eterno discorso acceso, nella mente, possiamo decidere di ascoltarlo da fuori, come faremmo se esistesse il famoso registratore.

Ascoltare, anzi osservare il fatto che ci parliamo di continuo per riempire il vuoto che ci spaventa è il primo passo per far tacere quella voce. Osserviamo i pensieri che scorrono, ascoltiamo senza giudicare e senza entrare nel merito. Un po’ come se assistessimo a una scena facendo spallucce e dicendo “Embè?”. La voce interna, giorno dopo giorno, comincerà a non portarci più nella spirale della sua trama, smetterà di farci vivere con i suoi ritmi. Lentamente, gradualmente, si spegnerà. Lasciandoci un meraviglioso silenzio mentale, navigabile come un mare calmo e cristallino. Scopriremo che quel vuoto che tanto temevamo è la condizione ideale per far nascere l’azione. Se la realtà entra nella nostra mente così come è, si traduce in azione più facilmente perchè non si infila in una selva oscura di "ma, se, forse, però", in altre parole non si fa arrestare dalle interpretazioni e dai giudizi più di quanto fisiologicamente già accada visto che ogni persona è soggetto dei propri sensi e delle proprie percezioni.

Succederà che potremo continuare a sprofondare nella trama di un romanzo quando sceglieremo di leggere un bel libro e abbandonarci alle sue pagine. Allo stesso tempo però sapremo distinguere la realtà esterna da quella interna, facendoci sorprendere dalla continua diversità di ciò che accade fuori, se avremo imparato a non sprofondare nella trama automatica e ripetitiva dei nostri pensieri quotidiani. Il microregistratore, ogni sera, restituirà soltanto silenzio. E la nostra giornata conterrà meno fatica e più esperienze.

giovedì 17 novembre 2011

I veri maestri non insegnano una cosa sola.

A chiunque è certamente accaduto di conoscere persone molto esperte in una determinata materia. Sanno tutto, tuttissimo, di un metro cubo d’universo. Sono i migliori, nel loro settore. Conoscono perfettamente le leggi della fisica, o hanno sviscerato fino in fondo la Divina Commedia, o si sono votati per anni a una singola molecola, o si sono specializzati in un tipo di patologia, o hanno dedicato la propria esistenza a uno sport. Ecco, tutti questi sono profondi conoscitori di un angolo di mondo. Non maestri. O almeno non necessariamente. 

La prima cosa che manca agli esperti, per essere anche maestri è la volontà (ed eventualmente la capacità) di trasmettere il proprio sapere ad altri. Se sono in grado di farlo, diventano in genere buoni insegnanti. I maestri però sono ancora un’altra cosa. Un maestro è un essere umano che incontri per un motivo specifico e dal quale, per motivi aspecifici, non ti vorresti più allontanare. E’ qualcuno che ti trasmette un sapere diffuso, non necessariamente nozionistico, molto spesso esperienziale. E’ un modello omeostatico: tra ciò che ha dentro e ciò che lo circonda esiste un continuo scambio di contenuti e vissuti. Per questa ragione i veri maestri non insegnano una cosa sola.
Non sei tu a sceglierlo, inoltre. Quando ti avvicini a un maestro lo fai perché credi di aver individuato in lui un comune mortale che ti può dare informazioni su un argomento. Cioè cerchi un insegnante. Oppure non cerchi proprio un bel niente e passi un po’ di tempo al cospetto di questo sconosciuto, su cui magari ti formi anche qualche pre-giudizio. Poi accade l’alchimia. Mister X (o miss X) parla, entra in relazione con te, e il grado di condivisione è tale che il flusso di contenuti diventa inarrestabile e privo di barriere. Non è lui o lei a porsi come maestro, sei tu ad assegnargli spontaneamente – e spesso inconsapevolmente – quel titolo e quel ruolo, nella tua vita.
Ho conosciuto insegnanti di arti marziali che si fanno chiamare “maestro” per sentirsi importanti e colmare le proprie lacune, così come pittori e musicisti che si fregiano di quel titolo come fosse il classico “dottò” all’italiana, o ancora medici, che si considerano da soli “maestri” e camminano due o tre metri sopra il livello dei propri pazienti-clienti.  In verità chi è maestro per qualcuno spesso non lo sa, e se glielo dicono forse un po’ se ne vergogna o comunque non se ne cura perché la sua attenzione è aperta al mondo e non ristretta su un solo oggetto, fosse anche il proprio narcisismo.

Questo è il punto: la modalità attentiva dei veri maestri. Perché abbiamo l’impressione che le persone che accettiamo come guide della nostra esistenza (di parti o di fasi di essa) siano “illuminate”? Proprio per la tipologia di attenzione che applicano alla loro vita e ai rapporti che intrattengono con le altre persone. Mi piace sempre pensare all’attenzione come se fosse una torcia potentissima con cui ciascuno di noi è in grado di fare luce sul mondo. C’è chi ha un po’ le pile scariche: la sua luce si accende e si spegne a intermittenza, o emette un fascio fioco e scarsamente utile. C’è chi non riesce mai a tenere la propria luce puntata su un oggetto per il tempo necessario a vederlo nei dettagli: è il caso dei distratti e di chi ha scarsa concentrazione. Poi c’è chi illumina con altissima precisione un oggetto, come se avesse un laser, ma tutto intorno è buio: così fanno gli esperti di una materia, ma anche le persone ansiose, la cui attenzione è attratta irresistibilmente dall’argomento che è fonte di preoccupazione. Poi c’è chi monta sulla propria torcia un diffusore che permette di illuminare tutta la realtà e di non farsi sfuggire la visione d’insieme: il diffusore è la consapevolezza e il soggetto in questione è il maestro, o la persona illuminata.
Quando ti accosti a una persona dotata di questa apertura al reale lo capisci subito, perché la sua attenzione investe anche te. Ti senti importante, vivo, considerato. E immediatamente il tuo interesse per l’altra persona passa dal semplice piano del “cosa” (i contenuti) a quello del “come” (la considerazione del mondo e delle relazioni per ciò che sono, nel momento in cui sono).

Ci sono due notizie. Quella negativa è che i maestri si mimetizzano tra le persone comuni e quindi non si riconoscono da lontano per il colore della pelle, o perché hanno fondato una religione, o perché hanno un biglietto da visita particolare. La buona notizia è che chiunque può diventare maestro almeno di se stesso, applicandosi quotidianamente all’esperienza del reale, ampliando la propria attenzione, dedicandosi alla riscoperta di ciò che già esiste, ma che di norma viene vissuto come automatismo. Cosa stai facendo ora, per esempio, mentre leggi? E l’attenzione si allarga. E come sta il tuo corpo? E si allarga ancora di più. Quali pensieri scorrono nella tua mente? Ancora di più. Cosa c’è nella stanza intorno a te? L’attenzione può essere tanto ampia quanto numerosi sono i contenuti possibili della tua esperienza del mondo.