giovedì 17 novembre 2011

I veri maestri non insegnano una cosa sola.

A chiunque è certamente accaduto di conoscere persone molto esperte in una determinata materia. Sanno tutto, tuttissimo, di un metro cubo d’universo. Sono i migliori, nel loro settore. Conoscono perfettamente le leggi della fisica, o hanno sviscerato fino in fondo la Divina Commedia, o si sono votati per anni a una singola molecola, o si sono specializzati in un tipo di patologia, o hanno dedicato la propria esistenza a uno sport. Ecco, tutti questi sono profondi conoscitori di un angolo di mondo. Non maestri. O almeno non necessariamente. 

La prima cosa che manca agli esperti, per essere anche maestri è la volontà (ed eventualmente la capacità) di trasmettere il proprio sapere ad altri. Se sono in grado di farlo, diventano in genere buoni insegnanti. I maestri però sono ancora un’altra cosa. Un maestro è un essere umano che incontri per un motivo specifico e dal quale, per motivi aspecifici, non ti vorresti più allontanare. E’ qualcuno che ti trasmette un sapere diffuso, non necessariamente nozionistico, molto spesso esperienziale. E’ un modello omeostatico: tra ciò che ha dentro e ciò che lo circonda esiste un continuo scambio di contenuti e vissuti. Per questa ragione i veri maestri non insegnano una cosa sola.
Non sei tu a sceglierlo, inoltre. Quando ti avvicini a un maestro lo fai perché credi di aver individuato in lui un comune mortale che ti può dare informazioni su un argomento. Cioè cerchi un insegnante. Oppure non cerchi proprio un bel niente e passi un po’ di tempo al cospetto di questo sconosciuto, su cui magari ti formi anche qualche pre-giudizio. Poi accade l’alchimia. Mister X (o miss X) parla, entra in relazione con te, e il grado di condivisione è tale che il flusso di contenuti diventa inarrestabile e privo di barriere. Non è lui o lei a porsi come maestro, sei tu ad assegnargli spontaneamente – e spesso inconsapevolmente – quel titolo e quel ruolo, nella tua vita.
Ho conosciuto insegnanti di arti marziali che si fanno chiamare “maestro” per sentirsi importanti e colmare le proprie lacune, così come pittori e musicisti che si fregiano di quel titolo come fosse il classico “dottò” all’italiana, o ancora medici, che si considerano da soli “maestri” e camminano due o tre metri sopra il livello dei propri pazienti-clienti.  In verità chi è maestro per qualcuno spesso non lo sa, e se glielo dicono forse un po’ se ne vergogna o comunque non se ne cura perché la sua attenzione è aperta al mondo e non ristretta su un solo oggetto, fosse anche il proprio narcisismo.

Questo è il punto: la modalità attentiva dei veri maestri. Perché abbiamo l’impressione che le persone che accettiamo come guide della nostra esistenza (di parti o di fasi di essa) siano “illuminate”? Proprio per la tipologia di attenzione che applicano alla loro vita e ai rapporti che intrattengono con le altre persone. Mi piace sempre pensare all’attenzione come se fosse una torcia potentissima con cui ciascuno di noi è in grado di fare luce sul mondo. C’è chi ha un po’ le pile scariche: la sua luce si accende e si spegne a intermittenza, o emette un fascio fioco e scarsamente utile. C’è chi non riesce mai a tenere la propria luce puntata su un oggetto per il tempo necessario a vederlo nei dettagli: è il caso dei distratti e di chi ha scarsa concentrazione. Poi c’è chi illumina con altissima precisione un oggetto, come se avesse un laser, ma tutto intorno è buio: così fanno gli esperti di una materia, ma anche le persone ansiose, la cui attenzione è attratta irresistibilmente dall’argomento che è fonte di preoccupazione. Poi c’è chi monta sulla propria torcia un diffusore che permette di illuminare tutta la realtà e di non farsi sfuggire la visione d’insieme: il diffusore è la consapevolezza e il soggetto in questione è il maestro, o la persona illuminata.
Quando ti accosti a una persona dotata di questa apertura al reale lo capisci subito, perché la sua attenzione investe anche te. Ti senti importante, vivo, considerato. E immediatamente il tuo interesse per l’altra persona passa dal semplice piano del “cosa” (i contenuti) a quello del “come” (la considerazione del mondo e delle relazioni per ciò che sono, nel momento in cui sono).

Ci sono due notizie. Quella negativa è che i maestri si mimetizzano tra le persone comuni e quindi non si riconoscono da lontano per il colore della pelle, o perché hanno fondato una religione, o perché hanno un biglietto da visita particolare. La buona notizia è che chiunque può diventare maestro almeno di se stesso, applicandosi quotidianamente all’esperienza del reale, ampliando la propria attenzione, dedicandosi alla riscoperta di ciò che già esiste, ma che di norma viene vissuto come automatismo. Cosa stai facendo ora, per esempio, mentre leggi? E l’attenzione si allarga. E come sta il tuo corpo? E si allarga ancora di più. Quali pensieri scorrono nella tua mente? Ancora di più. Cosa c’è nella stanza intorno a te? L’attenzione può essere tanto ampia quanto numerosi sono i contenuti possibili della tua esperienza del mondo.

domenica 6 novembre 2011

Piove. Come nella nostra mente.

La grande e devastante pioggia di questi giorni è un buon modo per osservare, in atto e all’esterno, una rappresentazione iperbolica della piccola ma incessante pioggia quotidiana dei nostri pensieri nella mente. Goccia dopo goccia esondano torrenti, canali e fiumi; pensiero dopo pensiero, la nostra mente si riempie di rigagnoli che disperdono la nostra attenzione attirandola in trappole dolorose, sommergendo la coscienza e suggerendole ogni volta che la verità sta in una semplice percezione momentanea o in un’emozione passeggera.

E’ di grande conforto, sempre per rimanere all’interno della metafora meteorologica, un pensiero buddista, tratto dall’Ittivuttaka (“Così fu detto”, una delle scritture fondamentali del Buddismo Theravada): «Chiunque plachi i pensieri incessanti, come la pioggia fa con una nube di polvere, con la consapevolezza che deriva dal pensiero placato, raggiunge qui e ora la dimora della pace».

Il pensiero placato non è l’assenza di pensiero né il controllo ferreo dell’attività mentale ma l’accoglienza di ciò che compare sul palcoscenico della mente, nel momento in cui vi compare. Se piovono pensieri, osservare le gocce, una dopo l’altra, guardandone le caratteristiche e lasciandole poi cadere giù senza trattenerle o incanalarle, è come guardare tutta la scena al rallentatore e ad altissima definizione. Si scopre che tra una goccia e l’altra c’è un considerevole intervallo di tempo, e che le gocce non sono disposte tutte sullo stesso piano. Questa consapevolezza della singola goccia, del singolo pensiero, si trasforma gradualmente in una strategia di diradamento della pioggia. Forse potremo scoprire che quella che ci sembrava una tempesta tropicale è ora una pioviggine leggera. Forse non è così difficile scoprire che l’effetto pioggia deriva dall’ansia che ci impedisce di considerare una goccia dopo l’altra, in modo tranquillo, e ci mette di fronte a un muro d’acqua che non riusciamo a gestire per il suo enorme impatto. Goccia dopo goccia, momento dopo momento, la percezione cambia, il tempo si dilata, gli spazi vengono invasi da serenità e presenza.

«Non ci riesco, quando mi viene l’ansia, non ci riesco». Certo, se non diluviasse l’esercizio risulterebbe elementare. Invece in condizioni di stress (e di maggiore utilità), il primo esercizio è sempre scegliere di fare l’esercizio. Optare per la singola goccia quando si è nella tempesta è una decisione importante e va nella direzione del cambiamento.