martedì 6 settembre 2011

Anti-elogio della fuga: il presente come soluzione.

Alla ventesima persona che, appena tornata dalle ferie, mi dice che non ce la fa già più, che vuole partire, trasferirsi, andare, scappare “via da” più che “verso”, mi fermo e penso.
Nel suo classico “Elogio della fuga”, Henri Laborit spiega così l’atto del ripiegare: "Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l'andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all'orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l'illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si  chiama desiderio".
I tempi attuali, incerti come mai, richiedono che si specifichi meglio questo concetto di fuga, al di là di ogni equilibrismo linguistico. Scappare non vuol dire sempre adottare strategie creative, così come restare non significa per forza adeguarsi alla rotta imposta da altri. La sovrapposizione di questi concetti in quell’unica parola, “fuga”, crea una pericolosa confusione e induce la gente ad arrendersi o a crearsi una stampella mentale per cui “faccio bene ad andarmene”, “smetto, così sto meglio”, “ho proprio bisogno di staccare”. Stare con se stessi e con le proprie emozioni negative fino a lasciare che, cambiando, evaporino, sembra insostenibile, se c’è sempre una soluzione low cost che permette di distrarsi in un attimo.
Dice bene, Laborit, in un altro passaggio: "perseguire un obiettivo che cambia continuamente e che non è mai raggiunto è forse l'unico rimedio all'abitudine, all'indifferenza, alla sazietà. E' tipico della condizione umana ed è elogio della fuga, non per indietreggiare ma per avanzare”. Qui  l’accezione è chiara: fuggire, per l’autore, significa essere fluidi, usare schemi di comportamento e di lettura del mondo duttili, saper reagire con l’imprevedibile all’imprevisto.
Bene, questo non è fuggire, è stare. Stare morbidamente nel tempo presente e  in un luogo specifico, abitandolo non con la pesantezza di un edificio ma con l’imprendibilità dell’acqua. Non sono gli eventi a far girare il vento e indurti a un dietro-front da dover giustificare a te stesso e al mondo. E’ la liquidità stessa dell’atteggiamento più aperto e accogliente a prevedere, sin dal principio, la possibilità di ogni cambiamento come semplicemente funzionale all’esistenza.

Piccolo esercizio di attenzione per allenare la consapevolezza del cambiamento: individua un percorso che fai tutti i giorni e ogni giorno osserva un particolare cambiato nelle ultime ventiquattr’ore. E’ un buon allenamento per capire che nulla è fermo, anche se per prigrizia, comodità o semplice disattenzione spesso la pensiamo così.

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