In questi giorni la cronaca nera dedica ampio spazio alla storia di Soter Mulè, l'ingegnere romano che, nel corso di una sessione di bondage con la tecnica giapponese detta shibari, ha ucciso una ragazza in un garage dell'Agenzia delle Entrate, mettendo a rischio contemporaneamente l'incolumità di un'altra protagonista del gioco erotico, legata alla vittima come se l'ensemble costituisse una specie di bilancia in sospensione davanti agli occhi dell'uomo. Il gioco del respiro, lo chiamano.
Al di là del dato cronistico o giudiziario, la domanda più frequente che sento in questi giorni è: come fanno a provare piacere in quel modo? C'è chi ricorda che neuroanatomicamente le zone del dolore e del piacere, a livello insulare, sono attigue; c'è chi ne fa un discorso prettamente simbolico o estetico; c'è chi scomoda la psicodinamica. Io osservo e non commento, anche perchè so che questo tipo di gioco può arrivare a estremi di varia natura, pur in condizioni di sicurezza, di solito. Frequentando giornalisticamente, in diverse occasioni, luoghi e persone del panorama bdsm lombardo e veneto ho visto mummificazioni, incelofanature, calpestamenti, trattamenti con cera bollente, clisteri caldi... E, soprattutto, sospensioni con uncini. Ecco, quella sera, di cui riporto qui una fotografia, la ricordo bene.
Mi ero appostato con la macchina fotografica sotto le ragazze appese e il sangue gocciolava come fossero manzi in macelleria. Ho parlato a lungo con le appassionate di queste sospensioni cruente e la lezione che ho imparato riguarda l'alterazione del loro stato di coscienza durante la performance. Ricordo che mi spiegarono che nei circa quaranta minuti necessari alla preparazione (quando cioè vengono loro infilati quattro uncini nella schiena), il loro stato di presenza muta fino a farle entrare in una sorta di trance. Quando agli uncini vengono legate le corde e parte la sospensione, con il distacco dei loro piedi da terra è come se avvenisse anche un distacco della loro coscienza dall'esperienza di veglia comune. In effetti provano dolore ma lo trasformano in una sorta di attitudine meditativa. Personalmente non lo farei mai, non rientra nei miei gusti, però mi affascina constatare come una sofferenza estrema, volontaria, possa essere gestita in modo squisitamente mentale, senza ansia, anzi con una certa invidiabile serenità. Se funziona per loro, mi dissi quella sera, funziona per tutti. L'importante è che oltre al consenso dei protagonisti ci sia anche una completa sicurezza per chi partecipa.
Allego qui sotto anche un video realizzato in tema di bdsm con il sessuologo Alberto Caputo qualche anno fa.
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